Beethoven, 250 anni di mito. Prima parte.

Considerazioni sulla ricezione di Ludwig van Beethoven, durante la sua vita e dopo la sua morte. A cura di Jacopo Simoncini.

“Palma” di Nicola Sutti

Der General der Musiker

 “Nel raccoglierci qui presso la tomba di quest’uomo che ci ha lasciati, noi siamo, per così dire, i rappresentanti di un’intera nazione, del popolo tedesco riunito, in lutto per la scomparsa di un suo celebratissimo figlio, di quanto era rimasto del declinante splendore della nostra arte nativa, della fioritura spirituale della patria. In realtà ancora vive – e possa vivere a lungo! – l’eroe del canto in lingua tedesca, ma l’ultimo grande Maestro, lo splendido portavoce dell’arte dei suoni, colui che ereditò e dilatò la fama immortale di Händel e di Bach, di Mozart e di Haydn, ha concluso la sua esistenza, e noi, piangendo, siamo qui accanto alle corde spezzate dello strumento che ora tace”[1].

È l’inizio dell’orazione funebre per la morte di Ludwig van Beethoven, scritta dal poeta e drammaturgo austriaco Franz Grillparzer e declamata da un attore durante la cerimonia funebre del 29 marzo 1827, davanti a una folla impressionante di viennesi (almeno 20.000 secondo le cronache dell’epoca), accorsi a tributare l’estremo saluto al compositore. Nessun musicista, prima di Beethoven, era mai stato pianto pubblicamente da un così grande numero di persone. Per nessun musicista era mai stato scritto e declamato un necrologio così intenso e partecipato come quello dedicato a Beethoven.

L’inizio di questa orazione, opera di uno dei massimi scrittori austriaci dell’ottocento, è quasi una dichiarazione programmatica dei capisaldi ideologici del romanticismo tedesco e delle sue implicazioni in ambito musicale: si parla di “nazione”, di “popolo tedesco” (due concetti fondamentali del romanticismo, che affonda le basi nell’ idea di individualità nazionale); si celebra l’”arte nativa” (l’arte popolare, delle origini, ingenua) e si associa Beethoven a questa arte ormai “declinante”; si mette in relazione Beethoven con il sommo poeta Goethe, definito “eroe del canto in lingua tedesca”; si conferma la convinzione, già chiara ormai da tempo a critici ed estimatori, che il genio di Beethoven discenda da quello dei grandi Maestri del passato austro-tedesco, almeno due dei quali (Haydn e Mozart), già inseriti, da E.T.A. Hoffmann, nell’empireo dei compositori romantici (pur non appartenendo cronologicamente a questa corrente), e di cui uno (Bach), in fase di riscoperta proprio in quegli anni (la celebre esecuzione pubblica della bachiana Passione secondo Matteo, curata da Mendelssohn, avverrà solo due anni dopo la morte di Beethoven, nel 1829, e decreterà il simbolico inizio della Bach-Reinassance).

Era chiaro a tutti, insomma, che era appena scomparso il “primo dei musicisti” (“Der General der Musiker” lo chiamò, secondo la tradizione, una fruttivendola viennese nel giorno del funerale), e che, per dirla con le parole di Grillparzer, “chi verrà dopo di lui non continuerà, dovrà ricominciare, perché questo precursore ha condotto l’opera sua fino agli estremi confini dell’arte”. Il nome di Beethoven era pronto per entrare nel mito, un mito che lo avrebbe accompagnato per tutto l’ottocento e che, sebbene per certi aspetti mitigato e ridimensionato, sarebbe andato avanti anche nel secolo successivo, per arrivare fino a noi.

Riveste quindi un certo interesse investigare in che modo la figura di Beethoven sia divenuta il simbolo del compositore romantico per eccellenza, pur essendo stata ormai chiarita da più parti la sua pressoché quasi totale estraneità al clima e agli ideali del romanticismo, e nonostante la sua musica abbia suscitato, in vita, le reazioni più eterogenee e opposte, sia da parte della critica ufficiale, sia da parte di colleghi e amici.

Gioie e dolori

Una delle risorse principali per comprendere la ricezione della critica musicale nei primi decenni dell’ottocento è l’Allgemeine Musikalische Zeitung, autorevole periodico tedesco fondato a Lipsia nel 1798. A più riprese, questa rivista si occupò di recensire le nuove composizioni di Beethoven e i concerti in cui venivano eseguite. Tra i primissimi articoli dedicati al compositore, vi sono quelli che commentano le Sonate per pianoforte op. 10, il Trio op. 11 e le Sonate per violino e pianoforte op. 12 (tutti lavori risalenti alla fine del ‘700). In questi articoli, se, da un lato, si riconosce la maestria e l’originalità della scrittura strumentale, dall’altra si stigmatizza, senza mezzi termini, l’elevata difficoltà tecnica richiesta e la stravaganza della scrittura armonica: l’op. 10 “merita un’alta lode. Buona invenzione, uno stile virile ed ardente, idee ben ordinate ovunque, difficoltà non portate all’eccesso, un trattamento piacevole dell’armonia pongono queste sonate molto al di sopra delle altre”[2] (riguardo alle “altre”, il recensore aveva poco prima scritto che la “sovrabbondanza di idee conduce troppo spesso … a un selvaggio cumulo di queste idee, o talora ad una stravagante combinazione di esse, così da provocare un effetto di oscuro disegno, che è verosimile prevenga l’ascoltatore verso tutto il lavoro”); l’op. 11, invece, viene letteralmente stroncata: “È fuori dubbio che il Sig. Beethoven segue una strada che si è segnata lui stesso; ma che cammino pieno di rovi e di spine. Scienza, ancora scienza, sempre scienza! E non un’ombra di naturale e di melodia. È uno sforzo perpetuo, una ricerca incessante di modulazioni bizzarre, un’avversione naturale per tutte le modulazioni naturali, e un accumulo tale di difficoltà che, suo malgrado, fa perdere la pazienza e rinunciare alla lotta”; analoga sorte per l’op. 12, “Ragione, ragione e sempre ragione, ma senza spontaneità, senza canto! È una musica arida e poco interessante”. È evidente che queste critiche hanno alla base l’adesione ai canoni del classicismo, che non poteva tollerare, in Beethoven, l’allontanamento dagli ideali di ordine, unità, equilibrio e decoro, ideali così ben rappresentati dal primo pilastro di questa corrente, Joseph Haydn.

A queste prime recensioni non mancò di rispondere lo stesso Beethoven, che, in una lettera del 22 aprile 1801 a Breitkopf & Härtel (editore del periodico di Lipsia), raccomanda “maggior prudenza e intelligenza specialmente nei confronti delle produzioni degli autori più giovani. Perché, più d’uno, che forse avrebbe la possibilità di fare molta strada, potrebbe spaventarsi”[3].

Ma tali critiche non propriamente lusinghiere dovettero accompagnare la vita di Beethoven ancora per diverso tempo, se anche per uno dei suoi capolavori, la terza sinfonia “Eroica” op.55, il recensore, dopo aver riconosciuto “l’energico compositore pieno di talento”, lamenta che in essa “vi si trovano troppe cose abbaglianti e bizzarre, il che impedisce di afferrare il tutto, così che il senso di unità è del tutto perduto”. A proposito poi della prima esecuzione pubblica di tale sinfonia, avvenuta il 7 aprile 1805 al Theater an der Wien, un cronista ricorda che “il pubblico trovò la sinfonia troppo pesante, troppo lunga e Beethoven troppo scortese, dato che non accennò neppure ad un inchino del capo in riconoscenza dell’applauso che venne da una parte del pubblico. Beethoven trovò che l’applauso non era stato abbastanza forte”[4]. Per giustificare queste incomprensioni da parte di pubblico e critica, bisogna ricordare che la classica sinfonia settecentesca, quella che aveva in Haydn e Mozart i due modelli indiscussi, era una composizione di modesta durata (difficilmente superava la mezz’ora), dal carattere generalmente giocoso (fanno eccezione pochissime sinfonie) e che aveva come scopo principale quello del piacevole ed innocuo intrattenimento (come del resto tutta la musica prodotta fino ad allora). La terza sinfonia di Beethoven, invece, è un’opera gigantesca, sia per durata (quasi un’ora di musica), sia per la massa sonora che viene messa in campo, sia soprattutto per concezione formale ed intenti programmatici.

Il 1805 è anche l’anno del Fidelio, unico lavoro teatrale di Beethoven, per il quale il compositore spese molte energie in modifiche e tagli. Ma l’opera non piacque, fu trovata priva di originalità, vocalmente ostica (si pensi, anche qui, ai modelli del belcanto italiano in voga in quegli anni anche a Vienna), piena di ripetizioni: in una parola, noiosa.

“Ludwig van Beethoven: dal cuore possa andare nuovamente al cuore”, grattage su graphia, creato in occasione del 250° anniversario della nascita del compositore, dall’ artista Giovanni Guida.

Vento a favore

Con la comparsa di quinta e sesta sinfonia, però, ci fu un cambio di rotta nella critica di Lipsia. La poetica beethoveniana iniziava ad essere riconosciuta e compresa in maniera più profonda. Fu lo scrittore e compositore E.T.A. Hoffmann ad innalzare un vero e proprio monumento imperituro alla quinta sinfonia: “Haydn e Mozart hanno portato per primi l’arte musicale al suo pieno splendore; ma chi la ha contemplata pieno d’amore ed è penetrato nella sua natura più intima, questi è Beethoven. (…) La musica strumentale di Beethoven ci schiude il regno del grandioso e del gigantesco. Un balenio di raggi infuocati squarcia la notte profonda di questo regno e noi veniamo avvolti da ombre gigantesche che ci stringono sempre più da vicino e annientano in noi ogni cosa tranne il dolore della nostalgia infinita. Beethoven è un compositore autenticamente romantico. (…) In questa sinfonia Beethoven ha mantenuto la consueta sequenza dei movimenti: essi sembrano magicamente collegati l’uno all’altro in una sequenza fantastica; e tutti insieme producono l’effetto di una geniale rapsodia. (…) I vari temi che la compongono sono fra loro straordinariamente affini e questo provoca quell’unità che mantiene l’ascoltatore in una stessa disposizione d’animo. In poche parole in quest’opera si esprime ad un livello altissimo il romanticismo della musica”. (da Allgemaine Musikalische Zeitung, 1810). Il mito di Beethoven paladino del romanticismo era stato creato, ed aveva l’avallo di uno dei suoi massimi esponenti. Da notare, tra l’altro, la maggior comprensione di Hoffmann, rispetto ai precedenti recensori, degli aspetti più prettamente musicali, quali il fatto che l’intera sinfonia è sorretta da elementi tematici “straordinariamente affini” che garantiscono unità non solo a livello formale ma anche e soprattutto percettivo, sancendo la definitiva sconfitta dell’ascoltatore passivo e disinteressato tipico delle accademie musicali settecentesche.

La profonda stima di Hoffmann per Beethoven continuò negli anni a venire, ed è testimoniata anche nelle sue opere letterarie, una fra tutte la raccolta Kreisleriana, del 1813, in cui, come si accennava sopra, lo scrittore chiarisce ed approfondisce l’idea della triade romantica Haydn-Mozart-Beethoven; ma, mentre Haydn “è più commensurabile, più comprensibile per il grande pubblico”, e Mozart “sollecita già in maggior misura l’elemento sovrumano, meraviglioso, latente in noi”, è tuttavia Beethoven a muovere “le leve del terrore, del brivido, del dolore, e appunto per questo suscita quel palpito di infinita nostalgia che è l’essenza stessa del romanticismo”[5]. Beethoven, che non era indifferente, nel bene o nel male, alle critiche, si ricorderà, nel 1820, di ringraziare Hoffmann per l’interesse nei suoi confronti, e lo definirà “uomo dotato di così eccellenti qualità”[6].

Il 1810 fu anche l’anno in cui Beethoven fece conoscenza con la poetessa Bettina Brentano, moglie dello scrittore Achim von Arnim. È ben nota la fervida immaginazione e la sensibilità iper-romantica della Brentano, che si ritiene abbia addirittura falsificato due lettere di Beethoven. I resoconti dei suoi incontri col compositore, al di là di ciò che realmente accadde, contribuirono notevolmente ad accrescerne l’aura romantica: in una lettera del 9 luglio 1810 ad Anton Bihler[7], Bettina rievoca il suo primo incontro con Beethoven, descrivendolo come “uno che si potrebbe definire brutto, e tuttavia la sua fronte è così nobilmente disegnata che si è tentati di guardarla come una magnifica opera d’arte”. Quando Beethoven si sedette al pianoforte, “improvvisamente dimenticò i presenti, e la sua anima si espanse in un mare universale di armonia”. Ovviamente non poteva mancare un accenno alla proverbiale trasandatezza del compositore, ma nonostante i “vestiti strappati” e l’aspetto “trascurato”, “appare tuttavia nobile e imponente” (l’artista che tralascia la cura della propria persona per darsi completamente all’arte è un’immagine tipicamente romantica). In una lettera a Goethe[8], che Beethoven stimava in sommo grado, Bettina rincara la dose delle stereotipate immagini romantiche: “quando è in tale stato di esaltazione il suo spirito genera l’incomprensibile e le sue dita realizzano l’impossibile”. Più avanti, nella stessa lettera, Bettina mette in bocca a Beethoven queste parole: “la musica è l’unico ingresso incorporeo nel mondo superiore della conoscenza che comprende l’umanità ma che l’umanità non può comprendere. (…) La musica è il campo elettrico in cui la mente pensa, vive, sente. (…) Così  ogni vera creazione d’arte è indipendente, più potente dell’artista stesso e ritorna al divino attraverso la sua manifestazione. (…) Tutto ciò che è elettrico stimola la mente a una produzione musicale, fluida ed estroversa. Io sono elettrico nella mia natura”. Non sappiamo, ovviamente, se Beethoven abbia espresso o meno questi concetti; certo non è facile immaginarlo, lui così sempre pragmatico nei suoi rapporti interpersonali (si vedano moltissime delle sue lettere e soprattutto i quaderni di conversazione), sciorinare tali concetti filosofici. A riprova delle versioni romanzesche che la Brentano amava restituire delle sue frequentazioni, sono le due lettere, considerate spurie dagli studiosi, che avrebbe ricevuto da Beethoven nel 1810 e 1812: oltre alla esagerata verbosità e leziosità, contengono anche riferimenti a fatti e personaggi del tutto anacronistici rispetto agli anni in cui sarebbero state scritte.

[1] Riportata in www.lvbeethoven.it
[2] Questo e i successivi estratti dalla Allgemeine Musikalische Zeitung sono tratti dal sito www.lvbeethoven.it
[3] Le lettere di Beethoven, a cura di E. Anderson, Torino, Ilte, 1968
[4] A.W.Thayer, Life of Beethoven, Princeton University Press, 1964
[5] E.T.A.Hoffmann, Pezzi di fantasia alla maniera di Callot, Torino, Einaudi, 1969
[6] vol. cit., v. nota 3
[7] Riportata in Beethoven. Impression by his contemporaries, Dover Pubblications, 2017
[8] v. nota 4

L’ autore

Jacopo Simoncini

Nato a Carrara nel 1979, è diplomato in pianoforte e composizione al Conservatorio G. Puccini della Spezia e laureato in discipline dello spettacolo all’Università degli studi di Pisa. Come compositore, è autore di numerose composizioni vocali e per ensemble da camera eseguite, tra l’altro, a Milano (Museo del ‘900), Pescara (Alviani Art Space), Camino al Tagliamento (Festival Atti Vandalici 2013), Riva di Chieri (Festival Musiche in mostra 2019), Grottammare (Festival Liszt 2019), La Spezia e Sarzana. Nel 2018 vince il primo premio al 2° Concorso Nazionale “Poesia in musica” di Ascoli Piceno, con il brano e questo giorno di azzurri profondissimi per flauto e pianoforte. Da sempre appassionato di musicologia, ha scritto numerosi articoli e recensioni per riviste locali e online. Attualmente collabora con La Nuova Eroica. Ha insegnato Teoria e Storia della musica nelle curvature musicali di alcuni licei classici. Al momento è docente di scuola secondaria di primo grado.

 Articolo apparso a pagina 68 del secondo numero della rivista

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