Opus 2
Sonate (3) in fa minore, la maggiore, do maggiore per pianoforte
Opus 2 – Sonate (3) in fa minore, la maggiore, do maggiore per pianoforte op. 2, dedicate ad Haydn, 1794 – primavera 1795, pubblicate a Vienna, Artaria, marzo 1796. GA. nn. 124-126 (serie 16/1-3) – B. 2 – KH. 2 – L. I, p. 21 – N. 2 – P. 62 – T. 40.
Destinate ad inaugurare la gloriosa serie delle trentadue sonate per pianoforte, le tre Sonate op. 2 sono le prime composizioni per pianoforte che Beethoven numerò, ma non le prime che scrisse né le prime che pubblicò. Tra il 1783 e il 1792 Beethoven infatti scrisse altre tre Sonate (WoO47), delle quali una è andata perduta, che furono pubblicate dall’editore Bossler di Spira nell’ottobre del 1783 e scritte, come recitava il frontespizio dell’edizione, «in età di anni 11» (in realtà erano quasi 13); altre due (WoO50 e WoO51) vennero pubblicate postume.
La genesi di queste Sonate op. 2 però viene da molto lontano e possiamo assegnare loro una gestazione di almeno dieci anni. I primi appunti risalgono infatti certamente al periodo di Bonn (esistono alcuni abbozzi fra cui uno della prima parte dell’Allegro della Sonata n. 1, riportato dal Nottebohm e dal Prod’homme, che si trova su un foglio, contenente anche il Lied “Klage”, conservato nell’archivio della società degli Amici della Musica di Vienna e risalente al febbraio/marzo 1790); furono poi riprese nel 1793 e poi anche nel 1794; ed è molto probabile che possano essere state terminate durante gli inizi di settembre.
Secondo quanto dice il Ries, le tre Sonate furono eseguite per la prima volta in un concerto privato presso il palazzo del principe Lichnowsky ed erano comunque già note ai dilettanti di Vienna nel 1795. Furono quindi pubblicate nel marzo del 1796 (dopo i tre Trii per violino, violoncello e pianoforte Opus 1) presso Artaria come Opus 2, e dedicate ad Haydn (probabilmente per rimediare al fatto che Beethoven rifiutò la dedica all’anziano maestro dei tre Trii dell’Opus 1). Con la dedica ad Haydn Beethoven voleva rendere omaggio — non soltanto ufficialmente — al vecchio e glorioso maestro, di cui era stato allievo dal suo primo arrivo a Vienna (novembre 1792) a tutto il 1793, ma Haydn avrebbe desiderato che, com’era in uso all’epoca, Beethoven facesse menzione nella dedica del fatto di esser stato suo allievo. Beethoven non volle aderire però al desiderio dichiarando che «da lui non aveva imparato niente».
Haydn, in maniera sprezzante, restituì al mittente le Sonate affermando a sua volta come fosse necessario che Beethoven si sottoponesse ad ulteriori lezioni e sentenziando che “l’ingegno non mancava, ma bisognava ancora istruirsi“. Il frontespizio delle Sonate, secondo un uso del tempo, lascia all’esecutore la scelta tra il clavicembalo e il pianoforte; ma poiché non si nota nessuna differenza di scrittura strumentale tra le Sonate op. 2 e la parte pianistica dei Trii op. 1, nei quali non è concessa l’alternativa tra pianoforte e clavicembalo, è evidente che Beethoven si conformò semplicemente ad un uso editoriale.
Passando ad analizzare queste Sonate, anzitutto c’è da rilevare un aspetto formale non secondario: queste si articolano in quattro movimenti (al contrario di quelle abitualmente ideate in tre movimenti da Haydn, Clementi e Mozart); ciò significa che per la prima volta le Sonate per pianoforte assumono un andamento più ampio e più vario rispetto alla classificazione in uso nel Settecento (anche se successivamente Beethoven ritornerà alla Sonata in tre tempi e addirittura in due tempi) naturalmente con un maggiore approfondimento sotto il profilo dello sviluppo tematico ed armonico.
Un altro elemento da tener presente in queste Sonate è l’allargamento e il potenziamento della forma-sonata, con riferimento alla struttura dinamica e ritmica e al gioco dialettico delle modulazioni, tese ad evidenziare un discorso più denso e corposo, secondo un pianismo dai risvolti psicologici (i due principi opposti – che Beethoven trasmuta da Immanuel Kant – su cui si basa la forma-sonata sono stabilità e instabilità che a loro volta corrispondono a luminosità e ripiegamento malinconico) meno legati ad un gusto salottiero; in essa si cominciò poi a fare già strada quella che fu un’importantissima peculiarità compositiva di Beethoven: un’enorme quantità di materiale musicale in pochissimi minuti di musica, cosa che prima di lui, non era mai avvenuta.
Secondo Carli Ballola, queste Sonate sono quindi il “manifesto” dello stile di cui il musicista si servirà per parecchi anni: il cosiddetto “primo stile” beethoveniano, secondo la risaputa (ma non per questo meno rispondente a un’innegabile realtà) classificazione inaugurata dal musicologo Lenz.
Se il lavoro giovanile di Beethoven risente in qualcosa delle opere di Haydn e Mozart, questo è da ricercarsi nella dimensione, tutto sommato abbastanza superficiale, di alcuni tratti melodici e ritmici di matrice comune.
La Sonata in do maggiore, in particolare, è improntata a un tipo di virtuosismo pianistico molto affine alla tecnica robusta e vistosa di Muzio Clementi e quanto mai lontano dalla scrittura dei classici viennesi; a detta del già citato Carli Ballola: «dalla massiccia scrittura pianistica che si rifà essenzialmente al “moderno” Clementi (il quale, come ben sappiamo, non godeva affatto dell’ammirazione di Mozart) e in cui la pletorica abbondanza delle idee, i rigorosi sviluppi, il gusto per la trovata eccentrica e capricciosa sono al polo opposto dell’essenzialità e della “normalità” mozartiane».
[Da Biamonti Giovanni – Catalogo cronologico e tematico delle opere di Beethoven comprese quelle inedite e gli abbozzi non utilizzati, Torino, ILTE 1968]
Titolo ufficiale: Opus 2 Drei Sonaten (f-moll, A-dur, C-dur) für Klavier Widmung: Joseph Haydn NGAVII/2 AGA 124-126 = Serie 16/1-3
Origine e pubblicazione: Iniziate probabilmente nel 1794/95 utilizzando materiale musicale di anni precedenti. L’edizione originale fu pubblicata da Artaria a Vienna nel marzo 1796. Un primo abbozzo del primo movimento della prima sonata si trova su carta risalente al 1793. Forse Beethoven riscoprì questi appunti solo quando consultò il foglio di schizzi nel 1794/95 alla ricerca di materiale per lo scherzo della sonata numero tre. Un secondo abbozzo sopravvissuto sempre per il primo movimento della prima sonata risale al 1795. Le sonate n. 1 e 3 furono ovviamente scritte nello stesso periodo. Oltre al collegamento con il foglio del 1793, ciò è indicato anche dall’inclusione di materiale musicale per il quartetto con pianoforte WoO 36 n. 3. Beethoven compose probabilmente ila seconda sonata nell’inverno del 1794/95. Oltre agli schizzi per il primo movimento, esistono annotazioni per un movimento variato in la maggiore, che forse era originariamente previsto come movimento finale della sonata. Come già accennato, il primo movimento della terza sonata attinge al materiale musicale del primo movimento del quartetto per pianoforte WoO 36 n. 3 composto nel 1785. Gli schizzi dell’inverno 1794/95 mostrano che Beethoven inizialmente pianificò un lavoro molto più ampio rispetto alle composizioni effettivamente stampate. Anche per il terzo movimento utilizzò idee precedenti, in questo caso banali annotazioni del 1793. Nel „Jahrbuch der Tonkunst von Wien und Prag aus dem Jahr 1796“, di Johann Ferdinand von Schönfeld, che l’autore scrisse probabilmente nella seconda metà del 1795, si dice di Beethoven: “Man hat schon mehrere schöne Sonaten von ihm, worunter sich seine Letzteren besonders auszeichnen“ (Schönfeld/Annuario p. 8).
Dovrebbe trattarsi dell’op. 2; pare che i manoscritti delle sonate circolassero già a Vienna prima della loro stampa. Sulla base di un esame dettagliato della maggior parte delle copie superstiti dell’edizione originale pubblicata nel marzo 1796, Patricia Stroh individuò ben sette versioni ovvero sette fasi di pubblicazioni differenti, tutte a partire dalla lastra di incisione primaria.
Dedica: Joseph Haydn, nato il 31 marzo 1732 a Rohrau e deceduto il 31 maggio 1809 a Vienna. Beethoven conobbe Haydn personalmente quando si fermò a Bonn durante il suo primo viaggio in Inghilterra (o durante il viaggio di andata: Haydn arrivò a Bonn il 25 dicembre 1790 e fu presentato all’orchestra di corte dell’Elettore il giorno successivo, o durante il viaggio di ritorno: Haydn viaggiò di nuovo via Bonn nel luglio 1792 e gli fu servita una colazione dall’orchestra elettorale). Nel novembre 1792 Beethoven si recò a Vienna con una borsa di studio per essere istruito da Haydn fino a quando “papà” non partì di nuovo per l’Inghilterra nel gennaio 1794. Nel 1795, Haydn invitò il suo ex allievo a eseguire il suo concerto per pianoforte (Op. 15 o 19) nel suo concerto nella piccola Redoutensaal il 18 dicembre 1795 (così come nel concerto di Haydn l’8 gennaio 1796). Prima esecuzione nel 1795 o 1796 dello stesso Beethoven a Vienna presso il principe Lichnowsky alla presenza del dedicatario Joseph Haydn (Wegeler/Ries p. 29). – Probabilmente nel 1796 Elisabeth von Kissow suonò le sonate con Lichnowsky e Rasumowsky. – Durante il suo soggiorno a Praga nel 1798, Beethoven suonò i movimenti dell’op. 2 n. 2 (Tomaschek/Autobiografia p. 374).
Gli abbozzi saranno trattati in un articolo appositamente creato per il Centro Ricerche Musicali www.lvbeethoven.it
Prima Sonata in fa minore
I) Allegro II) Adagio III) Minuetto-Allegretto IV) Prestissimo
Già nella prima delle tre Sonate, quella in fa minore, la forma sonata appare allargata e anche la divisione in 3 tempi, cara ad Haydn e a Mozart, diventa di quattro movimenti ben differenziati tra di loro: i due movimenti estremi sono avveniristici ed incandescenti, mentre al centro figurano due pagine di sapore più arcaico come un adagio, che è una trascrizione dal quartetto con pianoforte scritto nel 1785, e un minuetto con trio che costituisce un elegante e candido addio ad una forma tipicamente settecentesca.
Primo Tempo:
Per quanto esso abbia una chiara impronta personale, vi si possono riconoscere elementi vari di derivazione: per il primo tema (affine a quello dell’abbozzo di Sinfonia in do minore e dell’Allegro del Quartetto con pianoforte in mi bemolle maggiore) da Mozart (Sonata in do minore K. 457, Finale della Sinfonia in sol minore), da C. Ph. E. Bach (primo tempo della Sonata in fa minore della terza serie «per i conoscitori e gli amatori»), da Durante (Sonata per clavicembalo citata dal Torrefranca, ove all’arpeggio snodato ascendente ne risponde un altro analogo discendente, come qui nel secondo tema). Il Reinecke, insieme ad altri commentatori, ritengono invece che il primo tema della Sonata op. 2 n. 1 sia stato suggerito a Beethoven dal primo tema del finale della Sinfonia K. 550 di Mozart; mentre Edwin Fischer suggerisce un rapporto con un’altra Sinfonia di Mozart, la K.183 (anche perché in uno schizzo, pubblicato dal Nottebohm, il tema di Beethoven manca dell’anacrusi).
La costruzione architettonica del pezzo è diversa dal tipo che in Mozart prevale largamente con lo svolgimento molto più breve dell’esposizione e della ripresa; le tre parti qui sono quasi di pari lunghezza (48, 52, 52 battute).
Secondo Ian Bent all’inizio della Sonata la riduzione (negli scritti di Schönberg il termine si riferisce al restringimento di un tema o di una figura-base o Grundgestalt) della figura-base delle batt. 1-2 a metà della lunghezza iniziale (batt.5) crea un movimento ritmico, che sospinge efficacemente la musica verso la cadenza sospesa di batt. 8. Analoga riduzione delle batt. 3-4 si verifica a batt. 6.
Secondo Tempo:
Per l’Adagio di questa sonata, che ci appare come la pagina più tradizionalmente tranquilla di tutta la Sonata, Beethoven riutilizzò, trasformandolo e sviluppandolo, il tema composto nel 1785 per il Quartetto n.3 per pianoforte, violino, viola e violoncello, nel quale il giovanissimo artista riuscì a far rivivere in modo personale l’Adagio ornato che si incontrava spesso in Haydn e in C. Ph. E. Bach; secondo il Rosenberg questo Adagio potrebbe essere stato ispirato dall’Adagio del Quartetto op. 64 n. 5 di Haydn. Il nucleo principale della composizione giovanile rimane invariato (gli ascoltatori potranno così sentire a quale altezza sapesse già portarsi il genio quindicenne), e Beethoven lo amplia semplicemente con nuovi episodi, che denunciano appena una leggera frattura di stile: per esempio l’episodio in re minore stilisticamente è un po’ diverso, pianisticamente geniale, per l’abile sfruttamento dell’incrocio della mano destra sulla sinistra.
Terzo Tempo:
Col Minuetto ci s’incomincia a distaccare dalle tipiche sonorità di fine Settecento e addentrarsi in quelle dell’Ottocento; l’attacco del Minuetto avviene nello stesso registro usato per l’attacco dell’Adagio, con la stessa dinamica (piano) e con una disposizione analoga delle parti; ma basta l’uso dello staccato e la mancanza della didascalia dolce (che c’era invece nell’Adagio) per cambiare completamente la sonorità pianistica.
Si prosegue con uno Scherzo brillante insolitamente di tipo contrappuntistico e dagli umori saporosi
Il contrasto fra Minuetto e Trio ha qualche leggero punto di contatto con il corrispondente della Quinta Sinfonia.
Quarto Tempo:
Il finale gaio e piacevole, con una cordiale baldanza giovanile non priva di accenti misuratamente virtuosistici nel quale Beethoven dimostra una conoscenza delle migliori sonate di Clementi e di quanto di più avanzato era stato scritto per il pianoforte, come ha notato il Prod’homme, può essergli stato suggerito dal finale della Sonata op. 6 n. 1 di Clementi. La caratteristica più sorprendente (e più beethoveniana) del finale è l’inizio dello svolgimento: una lunga melodia, che non ha rapporto con il materiale tematico della esposizione (il Rosenberg ha però dimostrato la derivazione di questa melodia dal materiale tematico del primo tempo): è una prima prova dei sottili legami tematici che Beethoven stabilisce quasi sempre tra i tempi di una Sonata.
Il Prestissimo a detta di Della Croce, costituisce la: «(…) Pagina maestra, forse la prima per pianoforte in cui Beethoven riveli la sua personalità, sia pur ancora sottovoce, liberandosi dalla soggezione ai maestri del passato».
Seconda Sonata in la maggiore
I) Allegro vivace II) Largo appassionato III) Scherzo – Allegretto IV) Rondò: Grazioso
La Sonata n.2, ritenuta la migliore delle tre dell’op. 2, è nel suo complesso, la più radicata all’interno di quella che fu la concezione musicale di fine Settecento. Per lo Schering questa sonata sarebbe stata ispirata dai poemi di Ossian, e particolarmente dal Lamento di Calmar.
Primo Tempo:
Sin dal primo movimento (Allegro vivace) la Sonata in la maggiore rivela un piglio sostenuto ed energico con il secondo tema disteso su un largo arco di modulazioni di fervida tensione lirica, secondo il procedimento compositivo preferito da Beethoven. L’Allegro vivace, in confronto con quello della prima Sonata, ha una maggiore ricchezza d’idee e di sviluppi. La figura melodica sinuosa del secondo tema forma un sensibile contrasto con la baldanzosa irruzione di quello iniziale, che tuttavia da il carattere al tempo. Charles Rosen, a riguardo del secondo tema scrive: «ha una portata rivoluzionaria: molta musica del diciannovesimo e ventesimo secolo proviene dall’esuberante forza innovativa di questo basso ascendente e dalla sua violenta conclusione in un fortissimo dissonante».
Secondo Tempo:
Il Largo appassionato è una pagina intrisa di nobile e pensosa spiritualità, dalle sonorità così scavate e suggestive nella disposizione timbrica da far pensare ad una Adagio orchestrale; la gravità quasi religiosa e la densità strumentale non tolgono al Largo appassionato l’afflato lirico. Questo è il punto più alto della Sonata: un canto arioso che emerge da un accompagnamento del basso, considerato a tutti gli effetti, il primo dei grandi Adagio beethoveniani che, per Hector Berlioz furono una sua preponderante specialità.
Per Della Croce: “Importantissimo è il secondo movimento, un movimento lento che è un capolavoro e già contiene realizzate le aspirazioni del romanticismo».
Beethoven ereditò questa sua indubbia capacità da Haendel (che considerava il più grande compositore del passato) e soprattutto dai suoi Oratori, il genere in cui Haendel espresse maggiormente questa sua attitudine, ereditandola a sua volta, dalla grande tradizione italiana e da Giacomo Carissimi in specifico.
Antonio Bruers, a tal proposito, nel suo catalogo beethoveniano: «resta il fatto della sublimità degli Adagi di Beethoven, i quali considerati nel loro complesso, superano, per profondità di ispirazione trascendentale e di sentimento umano, gli Adagi di qualsiasi altro musicista»; e Richard Sprecht rincara la dose: « Udendoli abbiamo notizia dei mondi che sono vera patria dello spirito. Nessuno prima di lui li ha rivelati; solo pochi dopo di lui hanno potuto guardarvi»
Infine Rosen: «immensa coda l’aspetto più interessante di questo movimento».
Terzo Tempo:
Il terzo movimento a differenza della prima Sonata, non viene più definito Minuetto ma Scherzo; uno Scherzo brillante dagli umori saporosi che si conclude in modo gaio e piacevole, con una cordiale baldanza giovanile non priva di accenti misuratamente virtuosistici.
In esso viene usata la forma Variazione e trova il suo miglior momento, sempre per dirla con il Rosen in una: «interpolazione di squisita fattura che dilata l’espressiva cadenza in sol #- ».
Al gioco strumentale spigliato in maggiore fa riscontro, come una momentanea digressione dall’argomento principale, la elementare melodia della frase legata, in minore, del Trio.
Quarto Tempo:
Infine il Rondò Finale: è un tipico Rondò, grazioso quanto il corrispondente della prima Sonata era agitato; il più virtuosistico dei movimenti, è nel genere tipicamente mozartiano ma contiene anch’esso un elemento di contrasto nell’episodio in minore, con il suo ritmo marcato e la figurazione cromatica da cui è avvolto.
Rosen afferma: «il maggior colpo d’ispirazione è forse la trasformazione, alla battuta 100, dell’arpeggio iniziale di due tempi in una lunga scala ascendente in quattro tempi che percorre da un capo all’altro la tastiera dell’epoca di Beethoven».
Terza Sonata in do maggiore
I) Allegro con brio – II) Adagio – III) Scherzo – Allegro – IV) Allegro assai
L’op. 2 n. 3 è un’ambiziosa e imponente Sonata da concerto, connotata da una già forte libertà formale e varietà espressiva, verosimilmente concepita come cavallo di battaglia per le “accademie” (i recitals come diremmo oggi) del giovane virtuoso renano; nell’equilibrio qualitativo e nell’unitarietà stilistica dei suoi quattro tempi, compendia i caratteri del linguaggio pianistico maturato dal compositore nel periodo dell’apprendistato viennese: il linguaggio in senso assoluto del primo Beethoven. E il pianoforte ne diviene il quasi esclusivo banco di prova.
Per tacere della scrittura pianistica ostentatamente brillante, quanto mai lontana dalla scrittura dei classici viennesi, si avvale, soprattutto nei tempi estremi, di tutto il formulario già instaurato da Muzio Clementi nel proprio repertorio sonatistico (si pensi soprattutto alle op. 32 n. 3 e 34 n. 1, entrambe in do maggiore e quasi coeve dell’op. 2 beethoveniana); l’elemento rivelatore della destinazione “pubblica” del lavoro sono le due cadenze contenute nel primo e nel quarto tempo: particolare tipico del concerto, ma infrequente nella sonata da camera. D’inconfondibile matrice clementina sono pure, sempre nei tempi estremi, i passi in ottave e seste spezzate e le scale di terze e seste parallele.
Wilhelm von Lenz e Antonio Bruers molto stranamente considerarono questa la più debole delle tre dell’Opus 2, mentre la più moderna musicologia, in totale contrapposizione, la considera la più matura e complessa delle tre.
Primo Tempo:
D’inconfondibile matrice clementina, la cellula caratterizzante del tema fondamentale di questo primo tempo è basata ancora su quelle terze parallele, le quali, al dire di Mozart, erano una “specialità” del maestro anglo-romano: un’euforica estroversione del concertista che padroneggia con gioia le difficoltà della tastiera con un virtuosismo che incanta ed ammalia le platee.
L’inizio del primo tema dell’Allegro viene usato da Schenker per illustrare la tecnica dello “Scavalcamento” (Übergreifen = scavalcare).
Scrive Bent nel suo Trattato di Analisi Musicale : “Übergreifen. Termine usato nell’analisi schenkeriana per indicare il sovrapporsi di due o più successioni lineari discendenti che si innestano l’una sull’altra, dando l’impressione di un’unica successione lineare ascendente imperniata sulle note iniziali di ciascun segmento.
All’inizio della Sonata per piano in do maggiore op. 2 n. 3 (…) le due note (batt. 2-3) sono utilizzate in successione, posponendo la più acuta (fa3 batt.3) alla più grave (re3 batt.2). In questa forma – peraltro assai elementare – lo “scavalcamento” consente alla voce superiore di assumere ancora la sua posizione rispetto alla voce inferiore, grazie a quella che di fatto è una figurazione con una “nota cambiata” (..). Il fa3 e il re3 non sono percepiti nello stesso momento, ma tuttavia sono interpretabili, rispettivamente, come nota più acuta e nota intermedia di una settima di dominante.”
Dopo una breve introduzione, con il piano dell’esordio e la successiva ascesa, in fortissimo, sulle note dell’accordo di do maggiore, s’innalza ad un virtuosismo rapido e impegnativo che a sua volta sfocia in due concertanti che sembrano quelli tipici di un concerto per pianoforte e orchestra; la formulazione tematica iniziale e principale sulle note dell’accordo di do maggiore, annuncia il dinamismo della Sonata op. 53 (nello stessa tonalità).
Questo Allegro con brio iniziale ha una esposizione imponente che si avvale di ben tre temi (invece dei consueti due) in cui il tema secondario riprende quello del terzo Quartetto per pianoforte, violino, viola e violoncello in do maggiore, ed è concluso da una specie di cantilena, a due voci imitate, d’una indolente bonomia. Uno sviluppo modulante derivato da una cellula secondaria e con una piccola sezione contrappuntistica conduce alla ripresa, culminante in una virtuosistica cadenza – elemento, come abbiamo già detto, assai raro in una Sonata.
Secondo Tempo:
L’assoluta interiorità dell’Adagio, la pagina più densa di tutta la Sonata, è nella lontana tonalità di mi maggiore ed ha una struttura tripartita. Alla prima sezione, intima e serena, quasi un corale, fa contrasto l’ampio episodio centrale in mi minore, una melodia, protesa nell’estrema zona acuta della tastiera, dal colore cupo, implorante e dall’incedere agitato; questo episodio le si oppone due volte prima di lasciarle campo libero per una conclusione nello spirito della sua costituzionale dolcezza.
Questo Adagio è una delle creazioni più drammatiche e malinconiche fra tutte quelle composte da Beethoven che, secondo Antonio Bruers, ricorda seppur vagamente, il “Largo e mesto” della Sonata op. 10 n. 3 e l’Adagio della Sonata Hammerklavier op. 106. La sua importanza è così grande che Della Croce afferma che si tratti di una pagina che raggiunge: «uno dei vertici del primo stile di Beethoven, degna addirittura di essere paragonata ai prodotti della tarda maturità; il compositore si conferma come uno dei grandi maestri dell’Adagio ».
Terzo Tempo:
Lo Scherzo, frammentato nei suoi temi, pieno di ritmo e assai umoristico, è uno dei primi esempi del genere in Beethoven. Una piccola cellula ritmica (caratterizzata dallo slancio anacrusico delle sue prime tre note), condotta inizialmente in stile fugato, è alla base della composizione.
Nel Trio affiora, dalla figurazione arpeggiata, un rudimentale canto modulante.
La Coda fa dello spunto iniziale dello Scherzo un caratteristico elemento di colore mettendo una nota oscura nel quadro brillante dell’insieme.
Quarto Tempo:
Il luminoso Finale, con i suoi splendori timbrici e il suo slancio ritmico (in più d’un punto di carattere popolaresco) è come l’epifania trionfale del do maggiore beethoveniano, che per la prima volta appare in tutta la sua ottimistica forza persuasiva.
L’atmosfera brillante del primo movimento ritorna in questo luminoso Allegro assai in un trascinante ritmo di 6/8 impregnato di luminoso ottimismo come nella migliore tradizione dei finali beethoveniani.
Ferdinand Böckmann Largo aus der Sonate Op 2 nr 2 Für violocell mit Streich-Quintett
Seiner Majestat
dem Konige ALBERT von Sachsen
in tiefster Ehfurcht gewidmet
LARGO
(aus der Sonate Op 2 nr 2 von Ludwig van Beethoven für violocell mit Streich-Quintett)
bearbeit von Ferdinand Böckmann.
Dresden, L. Hoffarth. (ca 1865)
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